Il caso Mannocchi e lo statuto della satira
Il problema della vignetta di Mannelli non è il cattivo gusto – nel quale la satira deve poter sguazzare – ma la malafede, nonché l'interessata suggestione sondaggiocratica
Pubblicato su Stradeonline.it
Si deve poter dire e scrivere e disegnare tutto, entro i limiti tracciati dalla legislazione e dalla giurisprudenza civili e penali e volendo anche oltre, se si è disposti a sostenere i costi materiali e psicologici della violazione di tali limiti, e che siano limiti i più ampi e laschi perché un regime democratico-liberale laico e pluralista non involva in qualcosa di peggiore; e che le sanzioni connesse alla violazione di tali limiti siano di natura quasi esclusivamente economica e non prevedano la reclusione se non in casi rarissimi ed estremissimi.
Si deve poi fare i conti con l'approvazione e la disapprovazione del pubblico cui ci si rivolge: ogni Stato-nazione ha le sue peculiarità circa cosa è riprovevole e disgustoso e cosa non lo è, fortunato e bravo chi trova un'amplia platea o una nicchia al cospetto della quale esercitare la propria libertà di espressione – gli insolentissimi vignettisti di Charlie Hebdo, ad esempio, si erano e si sono accomodati su una nicchia di lettori a cui piace fruire di contenuti appunto così insolenti, nicchia che è assai facile incontrare nella Francia laica e laicista e oscillante tra i due estremi del disprezzo per la plebaglia maleducata praticato coi guanti di velluto e la furia ghigliottinista di chi vorrebbe appunto tagliare teste e impiccare il Papa e il re con le budella dell'ultimo prete e senza neppure guanti di lattice; difficile trovare una nicchia simile, ad esempio, nell'Italia omogeneamente perbenista e ipocrita, in cui anche negli ambienti più radicali la soglia di accettabilità di un contenuto dissacrante non è piatta ma si alza e abbassa, e mai al di sotto di un certo livello, in base a parametri di natura per così dire tribale (contro il Papa ok… contro gli imam no, cui prodest?); e infatti Charlie Hebdo dalle nostre parti non c'è, al più c'è stato Cuore.
Bisogna infine stare attenti alla duplice sfida alla libertà d'espressione lanciata dalla notte dei tempi dal moralismo conservatore da un lato e più recentemente da quello liberal/wokista dall'altro, quest'ultimo più in forze del primo in quanto più giovane, una sorta di WWF delle minoranze (anche le più stravaganti…) impegnato nella sterilizzazione anche retroattiva dei consumi culturali e del discorso pubblico, forte di una Santa Inquisizione rarefatta pronta a feroci campagne di mostrificazione degli eretici.
Tutto questo grossomodo per quel che concerne i limiti alla libertà d'espressione – e più specificamente al diritto di satira – sul piano giuridico e sociale (e dunque commerciale… se ti proponi in una comunità nota per la sua bassissima propensione alla dissacrazione, a chi vendi?); tutto questo è insomma, con parecchia approssimazione, l’essere della satira. Quanto invece a una sorta di "statuto" della satira stessa, e cioè un dover essere in base al quale poter a valle valutarla criticamente e a monte distinguere quel che è satira da quel che pur spacciandosi per tale non lo è, anche in questo caso ci troviamo di fronte una questione tutt'altro che semplice.
Dicono alcuni che sia il bersaglio ad avere valore discriminante: se ridicolizzi un non-potente non è satira. Questo, tuttavia, estrometterebbe dal perimetro della satira quasi tutto l'umorismo nero; sarebbero mero colore, peraltro, anche I Simpson, che agiscono su un ventaglio di bersagli socialmente e umanamente trasversale, dall'americano medio e talvolta perfino indigente (la famiglia Spuckler, tipici redneck poverissimi e analfabeti, ne esce peggio della famiglia Simpson…) al cinicissimo proprietario della centrale nucleare, passando per il sindaco corrotto, il bambino con l'asma, le famiglie disfunzionali dei compagni di scuola che lo bullizzano ecc. (assai poco progressisticamente, ma di certo molto manzonianamente, poi, I Simpson ridicolizzano spesso la folla per la sua manipolabilità).
Quella de I Griffin è satira solamente quando oggetto della loro derisione è Donald Trump o anche quando lo è il poliziotto paraplegico, cioè uno dei coprotagonisti?
Altri dicono che è una questione d'intensità; e dunque, ancora, una volta, Matt Groening, che viaggia su un livello di sottigliezza – e cioè di raffinatezza – medio-alto non farebbe satira, a differenza degli autori de I Griffin, cioè la versione hardcore de I Simpson (ma allora quella de I Griffin è satira solamente quando oggetto della loro derisione è Donald Trump o anche quando lo è il poliziotto paraplegico, cioè uno dei coprotagonisti?).
Uscendo dagli universi finzionali, dove tutto è naturalmente un po' ammortizzato, quando i bersagli sono pescati nella realtà la faccenda si complica ulteriormente.
Durante tutta la scorsa settimana s'è parlato parecchio della vignetta di Riccardo Mannelli su Francesca Mannocchi pubblicata due domeniche fa su Il Fatto Quotidiano. Come sempre, la risposta un po' pavloviana a chiunque abbia – a torto o a ragione – espresso perplessità è stata: «ma come, non eravate tutti Charlie Hebdo?».
È dunque giunta l'ora di chiarire una volta per tutte che con «io sono Charlie Hebdo» s'intendeva «qualunque cosa tu abbia disegnato e scritto, se ti vengono a massacrare coi kalashnikov in redazione io sono dalla tua parte», non «visto quanto è successo a Charlie Hebdo, rinuncio solennemente a muovere finanche la più blanda critica a qualunque vignetta in cui m'imbatterò da qui alla fine dei miei giorni».
Quanto alla vignetta in questione, a prescindere dallo stile dell'autore – che, per quel poco che vale, non incontra il gusto di chi scrive: Mannelli stilizza e personalizza pochissimo, le sue caricature troppo fedeli alle foto da cui sono tratte somigliano a quelle fatte dai pur abilissimi artisti di strada nelle piazze, non brilla per fantasia e originalità – a prescindere dallo stile dell'autore, si diceva, il problema non è il cattivo gusto della vignetta, cattivo gusto nel quale la satira deve poter sguazzare per tutte le ragioni di cui s’è detto, ma la malafede della stessa.
Un "deficit di lucidità", non dell'opinione pubblica ma addirittura dei cittadini-elettori chiamati a esprimersi tramite gli istituti di democrazia diretta, è rintracciabile perfino nella Costituzione, che prevede fra l'altro la non sottoponibilità a referendum abrogativo di intere categorie di leggi anche in ragione della loro impopolarità.
In brevissimo, Francesca Mannocchi, intervenendo a Piazzapulita, ha detto che fatta salva l’importanza dell’opinione pubblica le scelte circa la guerra devono essere prese dal "decisore politico" – un'affermazione perfino banale, in una democrazia rappresentativa, che è altra cosa da una sondaggiocrazia: il popolo si esprime alle urne e non al telefono con Ilvo Diamanti e Nando Pagnoncelli; si aggiunga che il "deficit di lucidità", non dell'opinione pubblica ma addirittura dei cittadini-elettori chiamati a esprimersi tramite gli istituti di democrazia diretta, è rintracciabile perfino nella Costituzione, che prevede fra l'altro la non sottoponibilità a referendum abrogativo di intere categorie di leggi anche in ragione della loro impopolarità (per restare in tema di affari internazionali, appartengono al novero di tali leggi anche quelle di autorizzazione alla ratifica dei trattati).
Padellaro ha ribattuto che comunque "il decisore politico" deve rendere conto delle proprie scelte (con quale altra modalità che non sia il voto? Un'adunata in piazza? Una storia su Instagram?) e non può ignorare i sondaggi (?). Due giorni dopo Mannelli ha deformato volto e parole di Mannocchi ammiccando alle interessate suggestioni sondaggiocratiche di Padellaro.
Interessate perché sino all'altro ieri le punte di diamante de Il Fatto Quotidiano agitavano col piglio dei martiri la Costituzione (e segnatamente i meccanismi in essa previsti al fine di evitare tocquevilliane prevaricazioni della maggioranza) al cospetto della folla manzoniana – o, a questo punto, groeninghiana – plagiabile e plagiata dal populismo berlusconiano renziano meloniano; ora invece s'appellano alla saggezza e all'autorevolezza romantica del volksgeist pacifista certificatosi come tale a mezzo sondaggio; e tutto il fronte intellettuale per la sostituzione della leadership politica con una più accattivante e bottom-up followership populista s'è mobilitato a sostegno di Padellaro-Mannelli («non si governa senza o contro il popolo» ha twittato, fra gli altri, Chiara Geloni).
Alla fine, lo si ribadisca, si deve poter dire e scrivere e disegnare tutto entro i limiti di cui si è detto all'inizio, limiti ai quali aggiungiamo in conclusione il rispetto per il principio di non contraddizione, l'onestà intellettuale, la buonafede, limiti violando i quali non s’incorre in altra sanzione che in quella più severa in assoluto, la predita di qualunque simpatia e credibilità.
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